23/05/2017 – «Così tanto li amiamo, così tanto li disapproviamo, i brand italiani che ancora non si sono impegnati in modo definitivo con l’ambiente sono ancora (purtroppo) tanti, sono marchi di un certo livello, sono firme importanti nel mondo della moda.»

“I patiti delle sostanze tossiche”, così sono definiti coloro che non hanno accolto il messaggio e non hanno preso un impegno serio con l’ambiente e, fra tutti i marchi che tutt’oggi continuano a contaminarlo, ci sono i nomi di molti brand italiani.

L’organizzazione ambientalista e pacifista mondiale Greenpeace, si (pre)occupa della salute del globo e quindi delle condizioni terrestre e marine, della difesa del clima e delle balene, del riscaldamento globale e della pesca a strascico. Noi sopravviviamo se l’elenco appena citato non viene intaccato da fattori esterni, quali, ad esempio, le industrie tessili. In estrema sintesi parliamo di quelle attività che alzano il PIL (prodotto interno lordo) di una data nazione perché sono le maggiori fonti di guadagno, visto che tutti, alla fine dei conti, abbiamo bisogno di coprirci! Ma cosa c’entra in tutto questo l’organizzazione ambientalista? C’entra eccome! Pare, infatti, che i responsabili maggiori dell’inquinamento delle risorse idriche siano proprio le industrie del ramo tessile che, per realizzare i propri capi, adottano sostanze tossiche e di conseguenza pericolose, che si disperdono nell’ambiente inquinando i nostri mari.

Certo, è difficile da capire quanto danno possano creare queste sostanze nell’acqua. «Quali danni avremo mai?» penseranno in molti? Non ne sarei così sicura e così, vi porto un esempio elementare. Avete presente il film di Erin Brockovich? La mamma evolutasi in assistente di un avvocato evolutasi, sucessivamente, in attivista ambientalista? La pellicola parla di una storia vera, reale, e non si sente altro, per tutto il film, che il cromo VI, un elemento chimico cancerogeno presente nell’acqua, a poco a poco ha creato agli abitanti di una tal cittadina patologie, nei peggiori dei casi, mortali.

Pensate sia finzione e invece no, la realtà ci prende a schiaffi a volte, come nel caso in questione.

Il cromo VI è uno degli elementi che Greenpeace ha trovato. Tramite indagini e analisi dei prodotti finali infatti, ha scoperto che molti capi ed accessori contengono materie altamente nocive quali coloranti azoici, ftalati, alchifenoli, composti organici tannici, composti perfluoroclorurati, clorobenzeni, solventi clorurati, clorofenoli, paraffine clorurate a catena corta e poi vari metalli pesanti tra cui il cadmio, il piombo, il mercurio e il già citato cromo VI.

I brand italiani bocciati perchè coinvolti in questo “crimine ambientale” sono Armani, Diesel, D&G e Versace, ci sono anche i promossi con riserva: Valentino e Miroglio, adesso più trasparenti nella filiera produttiva e poi, l’azienda promossa e prima in assoluto, nella categoria avanguardia, il gruppo trevigiano Benetton.

La campagna Detox, lanciata dall’organizzazione ambientalista, ha avuto alte adesioni da parte delle industrie tessili di Prato – 30 per l’esattezza – sostenute da Confindustria Toscana Nord che, a sostegno di queste aziende a sua volta ha creato il CID, Consorzio Implementazione Detox che offre supporto tecnico ai brand italiani che vogliono aderire e impegnarsi nella salvaguardia dell’ambiente. Anche le industrie seriche di Como sono pronte a dare una svolta alla loro filiera produttiva, in mano le analisi per assumersi la responsabilità di disintossicazione dei sistemi ad oggi no green.

Tutte queste imprese, possiedono una black list di circa 700 sostanze che non sono permesse per la lavorazione del tessile, ogni anno ne vengono aggiunte di nuove ed hanno l’obbligo di aggiornarla. L’aggiornamento viene fatto ogni 12-18 mesi. Con il Detox Catwalk invece, si monitora chi ha aderito al programma, valutando se sta facendo ciò che ha promesso.

È una sfida che dobbiamo vincere, quella dell’eliminazione totale di sostanze nocive nei capi d’abbigliamento, i brand italiani possono produrre ecofriendly, la dicitura made in italy non deve essere soltanto un marchio di appartenenza, un lusso meramente estetico, ma una firma da ricordare nel campo dell’ecosostenibilità.

 

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