25/04/2017 – Promossi Zara, Benetton, H&M, bocciati Armani, Diesel, Dior, D&G, Gap, Hermès

Macchina da soldi capace di dare lavoro a milioni di persone ma anche industria con un posto riservato sul podio di quelle più inquinanti delle risorse idriche, dopo quella del petrolio che vince sempre. L’industria della moda si alterna, infatti, con il comparto dell’acciaio/alluminio, in questo campionato al contrario, in cui arrivare secondo o terzi cambia poco. Il peccato è esserci.

Ed è un peccato mortale (in alcuni casi nel vero senso della parola), che coinvolge anche aziende italiane e di primissimo piano. Tra quelli che Greenpeace definisce “I patiti delle sostanze tossiche”, marchi che continuano a far finta di non vedere la scia inquinante che lasciano alle proprie spalle e che non hanno preso alcun impegno serio e credibile con i consumatori di tutto il mondo, troviamo Armani, Diesel, D&G, Gap, Hermes, LVHM Group/Christian Dior Couture, Versace.

Queste aziende continuano a ignorare il grande problema ambientale che contribuiscono a generare. Nonostante indagini di Greenpeace condotte a partire dal 2013, abbiano mostrato, in modo chiaro e inequivocabile, l’inquinamento derivante da alcuni dei loro prodotti.
Ma andiamo con ordine. Vediamo come funziona il settore, chi s’impegna pubblicamente per cambiare le cose, chi non l’ha ancora fatto, quali sono le sostanze pericolose – e i loro effetti – che possono trovarsi in capi e accessori. E, ovviamente, disperdersi nell’ambiente, inquinando, di solito, in prima battuta l’acqua, poi il resto.
Greenpeace e la campagna Detox

A occuparsi dell’inquinamento delle risorse idriche e nel 2011 a far partire la campagna Detox per scongiurarlo è stata Greenpeace, che ha individuato nell’industria tessile un grosso responsabile di questo fenomeno. «Abbiamo cominciato a fare indagini nelle aree industriali del ramo tessile di Paesi come Cina, Vietnam, Messico, Indonesia scoprendo scarichi incontrollati. – racconta Chiara Campione, senior corporate strategy di Greenpeace che dal 2011 segue questo progetto -. Poi, un passo alla volta siamo riusciti a risalire la filiera, andando oltre le informazioni a portata di mano dell’opinione pubblica e arrivando a studiare l’intera filiera delle aziende dei vari distretti tessili. Queste aziende producevano per grandi marchi di moda e sportwear».

Questa scoperta portò a un cambio di focus. «A quel punto ci siamo messi ad analizzare i prodotti finali, li abbiamo testati per scoprire se c’erano responsabilità nascoste e se erano presenti sostanze pericolose.» I brand passati al setaccio sono marchi leader nel mondo.
«Nel 2011-2012 abbiamo lavorato, per esempio, su Nike, Adidas, Zara, H&M producendo rapporti su rapporti: venne fuori che nei loro prodotti che risultavano contaminati la concentrazione di sostanze chimiche pericolose in alcuni casi superava i limiti dei regolamenti europei. »
Questo consentì a Greenpeace di coinvolgere e sensibilizzare migliaia di consumatori. «Abbiamo chiesto ai consumatori di sostenerci nella richiesta alle aziende di eliminare le sostanze pericolose: così i primi brand hanno cominciato ad impegnarsi firmando un Detox Commitment, in pratica un impegno pubblico e trasparente che il brand prende con i consumatori e prevede un action plan da oggi al 2020», continua Campione. Per alcuni gruppi di sostanze pericolose l’impegno richiesto è di eliminarle subito. In certi casi, se per esempio è necessario sostituire la maggior parte delle sostanze impiegate o se per farlo occorre cambiare in modo profondo il ciclo produttivo i tempi concessi possono allungarsi. L’obiettivo, però, resta lo stesso per tutti: eliminare tutte le sostanze chimiche pericolose dai prodotti e dai processi produttivi.
Di cosa stiamo parlando? Identikit delle sostanze pericolose

Alchifenoli (usati nei processi di lavaggio e tintura. Sono tossici per la vita acquatica, persistenti nell’ambiente e possono accumularsi negli organismi viventi fino ad arrivare all’uomo attraverso la contaminazione della catena alimentare. La loro somiglianza con gli ormoni estrogeni naturali può interferire con lo sviluppo sessuale di alcuni organismi. Nei pesci, in particolare, sono causa di femminilizzazione).

Ftalati (usati nella pelle artificiale, nella gomma, nel PVC e in alcuni coloranti. Alcuni ftalati sono dannosi per la riproduzione e possono interferire nello sviluppo dei testicoli durante i primi anni di vita).
Ritardanti di fiamma bromurati e clorurati (utilizzati per eliminare il rischio di infiammabilità. Alcuni di essi possono interferire con i sistemi ormonali della crescita e dello sviluppo sessuale).

Coloranti azoici (tra i principali coloranti usati nell’industria tessile. Alcuni coloranti azoici, però, durante l’uso rilasciano sostanze chimiche conosciute con il nome di ammine aromatiche. Alcune ammine aromatiche possono causare tumori).

Composti organici stannici (usati come principi attivi che inibiscono qualsiasi organismo nocivo e come agenti antimuffa nei calzini, nelle scarpe e negli abiti sportivi per prevenire l’odore causato dal sudore. Alcuni di essi persistono nell’ambiente, si accumulano nel corpo e possono colpire il sistema immunitario e riproduttivo).

Composti perfluoroclorurati (usati per realizzare prodotti e pellame idrorepellenti e antimacchia. Molti PFC persistono nell’ambiente e possono accumularsi nei tessuti e aumentare di livello attraverso la contaminazione della catena alimentare. Una volta assimilati dall’organismo, alcuni PFC hanno effetti sul fegato e possono alterare i livelli di crescita e riproduzione ormonale).

Clorobenzeni (utilizzati come solventi e biocidi nella produzione di coloranti. Gli effetti dell’esposizione dipendono dal tipo di clorobenzene, tuttavia, essi comunemente influenzano la tiroide, il fegato e il sistema nervoso centrale).

Solventi clorurati (utilizzati per sciogliere altre sostanze in fase di produzione e per la pulizia dei tessuti. Uno di essi è dannoso per l’ozono che può persistere nell’ambiente. È anche conosciuto per gli effetti su sistema nervoso, fegato e reni).

Clorofenoli (Il pentaclorofenolo i suoi derivati, sono usati come biocidi nell’industria tessile, sono altamente tossici per gli uomini e per gli organismi acquatici e possono colpire diversi organi del corpo).

Paraffine clorurate a catena corta (usate come ritardanti di fiamma e agenti di rifinitura per la pelle e il tessile. Sono altamente tossici per gli organismi acquatici, non si degradano rapidamente nell’ambiente e hanno un’elevata potenzialità di accumulo negli organismi viventi).

Metalli pesanti: Cadmio, Piombo, Mercurio, Cromo VI (utilizzati in alcuni coloranti e pigmenti. Questi metalli possono accumularsi nel corpo per molto tempo e sono altamente tossici, con effetti irreversibili inclusi i danni al sistema nervoso o al fegato. Il cadmio è anche noto per provocare il cancro.

Questi i nomi delle sostanze pericolose che vanno bandite dai processi produttivi in modo che non si disperdano nell’ambiente e non ve ne sia traccia nei prodotti che poi s’indossano. Alcuni composti che fanno parte di questi 11 gruppi sono stati banditi in Europa per specifici prodotti, per esempio gli ftalati non si possono usare per i prodotti per bambini, ma questo non avviene in altri Paesi.
Analisi e controlli

Ogni azienda che aderisce al Detox Commitment ha una lista di 600-700 sostanze non permesse di cui deve evitare l’uso. E ogni anno, in considerazione delle nuove formulazioni chimiche o della messa in produzione di nuovi prodotti, il MRSL (Manufacturing Restricted Substances List) deve essere aggiornato e nuove sostanze entrano nella lista nera.
«Si tratta di un esercizio collettivo: anche le aziende hanno il dovere di aggiornare la lista e s’impegnano a farlo. – racconta Campione – L’aggiornamento viene fatto ogni 12-18 mesi. Invece con la Sfilata Detox o Detox Catwalk, a seconda dei criteri presi in esame di volta in volta, valutiamo se chi ha aderito al programma sta facendo quello che ha promesso». L’ultima valutazione è stata fatta a luglio 2016, la prossima sarà a fine del 2017-inizio 2018. Ovviamente a ogni appuntamento l’impegno cresce perché i brand aumentano così come le sostanze da controllare. Ed è fondamentale la trasparenza. Se per esempio, ci si concentra sugli scarichi e l’eliminazione di una data sostanza, come i composti perfluorurati, è necessaria la pubblicazione dei resoconti degli scarichi e delle sostanze chimiche da parte dei vari fornitori. Insomma, carta canta a tutti i livelli della filiera.
Chi ha aderito al programma

Negli ultimi anni Greenpeace ha ricevuto l’adesione alla Campagna Detox di 76 aziende internazionali, che corrispondono a più di 100 marchi della moda e del tessile. A queste si aggiungono, per quanto riguarda l’Italia una trentina di aziende di Prato. Anche a Como le aziende del settore serico stanno facendo lo stesso: hanno già pronte le analisi per accedere e dare a un loro Detox Commitment. «Noi abbiamo spinto per creare il Consorzio Detox, un organismo che può supportare le aziende, sostenuto da Confidustria Toscana Nord. – dichiara Campione -. Impegnarsi nel Detox Commitment, infatti, è uno sforzo e richiede un costante monitoraggio. Avere supporto è importante».
«Un anno e mezzo fa è partito il primo Detox collettivo di Prato, sostenuto da Confindustria Toscana Nord, con lo scopo di eliminare le sostanze pericolose dalle tessiture di Prato e riqualificare il prodotto. – racconta Campione – Dopo un anno Confindustria Toscana Nord ha creato il CID, Consorzio Implementazione Detox che offre supporto di tipo tecnico, per mettere in piedi un sistema che consenta a tutte le aziende di procedere in questa direzione, mentre noi di Greenpeace abbiamo accettato di far parte del comitato scientifico».
La trasparenza è sempre fondamentale. «Ci vogliono sempre più analisi pubbliche, è necessario che i dati siano disponibili e pubblici, pubblicati sulle pagine web delle aziende o anche sulla piattaforma IPE che è una ONG cinese che opera per garantire trasparenza e accessibilità dell’informazione». Fondamentale ricordare che il tessile italiano non può competere per il prezzo ma per qualità, quindi non solo la qualità ma anche per la sostenibilità, cioè la mancanza d’impatto ambientale. E chi s’impegna sul programma Detox riqualifica il prodotto rispetto ad altri Paesi. A questo proposito, anche Taiwan si sta muovendo in questa direzione, dimostrando maggiore sensibilità green, nei suoi tanti comparti tessili.
I grandi marchi: chi collabora, chi riposa sugli allori, chi si gira dall’altra parte

Greenpeace nella sua ultima classifica (aggiornata a luglio 2016) relativa alle aziende e ai brand di moda, sportswear e outdoor divide le aziende in categorie, in pratica dà le pagelle ai buoni e ai cattivi.
1. Promossi: Categoria Avanguardia: Inditex, Benetton, H&M.
In questa categoria ci sono le aziende che hanno sottoscritto l’impegno Detox e che rispettano scadenze serie e credibili, stanno guidando l’intero settore verso un futuro privo di sostanze tossiche.
2. Promossi con riserva. Categoria La moda che cambia: C&A, Fast Retailing, G Star, Mango Miroglio, Valentino, Adidas, Burberry, Levis, Primark, Puma, M&S.
Nella categoria La moda che cambia troviamo, invece, le aziende che hanno aderito alla campagna Detox e hanno compiuto molti passi nella direzione giusta, tuttavia devono muoversi più in fretta per raggiungere gli obbiettivi prefissati entro il 2020.
3. Rimandati. Categoria Retrovie: Esprit, Limitedbrands, Li-Ning, Nike.
Nella categoria Retrovie ci sono, invece, le aziende che hanno sottoscritto l’impegno Detox ma che al momento si stanno muovendo nella direzione sbagliata, non assumendosi completamente le proprie responsabilità per impedire l’inquinamento da sostanze chimiche generato dalle loro filiere produttive.
4. Bocciati. Armani, Bestseller, Diesel, D&G, Gap, Hermès, LVHM Group/Christian Dior Couture, Metersbonwe, PVH, Vanci e Versace
Sono i brand che Greenpeace definisce “I patiti delle sostanze tossiche” e sul sito dedicato spiega: “ci sono ancora molti marchi che non hanno aderito alla campagna Detox – i Patiti delle sostanze tossiche – che continuano a far finta di non vedere la scia inquinante che lasciano alle proprie spalle e che non hanno preso alcun impegno serio e credibile con i consumatori di tutto il mondo. Tutto ciò avviene nonostante indagini di Greenpeace condotte a partire dal 2013, abbiano mostrato, in modo chiaro e inequivocabile, l’inquinamento derivante da alcuni dei loro prodotti. Purtroppo, mentre tutto il settore tessile si muove verso un futuro privo di sostanze tossiche, Armani, Bestseller, Diesel, D&G, Gap, Hermes, LVHM Group/Christian Dior Couture, Metersbonwe, PVH, Vanci e Versace, continuano a ignorare il grande problema ambientale che contribuiscono a generare”.
[Abbiamo chiesto un commento ad Armani, Diesel, D&G, Hermes, LVHM Group/Christian Dior Couture e Versace. Hanno risposto solo Dolce&Gabbana ed Hermès, comunicandoci che non avevano commenti da rilasciare]
Occasione mancata

La non chiarezza e il non impegno da parte di grandi aziende che operano nel tessile hanno risvolti collaterali. «Se non c’è trasparenza nei loro processi, come fa un consumatore a sapere quali sostanze sono state impiegate o non sono state impiegate nei loro prodotti? – si chiede Campione -. Ovviamente, se non c’è trasparenza rispetto alla filiera, non ci può essere neanche per i prodotti che si acquistano. Inoltre, il mancato impegno di grandi marchi contro l’inquinamento priva tutti della loro influenza positiva, in pratica del loro buon esempio, per combattere il problema.» E questo può fare la differenza per accelerare cambiamenti positivi e nuovi processi produttivi meno inquinanti. Infatti, Greenpeace ha notato che quando un produttore decide di eliminare delle sostanze pericolose poi la filiera cambia di conseguenza, si evolve e migliora più velocemente. «Ogni volta che vediamo un’azienda porsi un obbiettivo per cambiare in senso positivo, nell’intera filiera si mette in moto un’accelerazione dell’innovazione tecnologica. – racconta Campione -. Le soluzioni alternative fioriscono».
La falsa verità

Possibile che esistano prodotti privi di sostanze pericolose se queste sono invece state impiegate nei processi produttivi? «No, se sono impiegate sostanze pericolose nel processo produttivo, nel prodotto ve ne sono delle tracce. – spiega Campione – Ma va testato il processo a umido, durante la lavorazione, infatti nel prodotto finale i valori sono più bassi.» Perché non ha senso per le aziende tentare di nascondersi dietro un dito? «I consumatori in presenza di queste sostanze riversate in acqua verranno comunque aggrediti e danneggiati da queste sostanze pericolose. E poi cosa vuol dire? Che solo i clienti che comprano i prodotti meritano di essere meno esposti? E il resto delle persone? Le sostanze pericolose, se le utilizzi nei processi produttivi, finiscono comunque nell’ambiente e lo inquinano, risalendo la nostra catena alimentare».
Il Green Washing della Camera della Moda

Green Washing, letteralmente una “lavata verde”, significa, in pratica far vedere che ci s’impegna su temi green ma, in sostanza, farlo solo all’acqua di rose. Vediamo un esempio. «La Camera della Moda Italiana ha lanciato un’iniziativa a fine 2015, comunicando linee guida per ridurre le sostanze tossiche: hanno aderito tutti i brand della Camera della Moda Italiana. – racconta Campione -. Secondo noi è stata solo una Green Washing, tutta fuffa, perché, in parole povere, i limiti suggeriti erano valori troppo alti rispetto all’innovazione della tecnologia. Insomma erano limiti “vintage” rispetto a quello che si può fare davvero oggi, quindi non abbastanza. In più ricordiamo sempre che i test vanno fatti non sul prodotto ma sull’intero processo».
I tranelli della moda low cost

C’è ancora tanto lavoro da fare per ripulire l’industria tessile dalle sostanze pericolose e la fast fashion è un elemento da non sottovalutare. «La velocità con cui i vestiti vengono prodotti, comprati, utilizzati e buttati sta aumentando: è una specie di dipendenza. – spiega Campione – E con questo aumenta anche l’impatto sociale e ambientale della moda. Per esempio, peggiorano le condizioni per chi ci lavora. La sfida per il settore, secondo noi, è, invece, allungare il ciclo di vita del prodotto e andare verso un riciclo dei prodotti senza sostanze chimiche pericolose».
Vantaggi e svantaggi del riciclo e come innescare un circolo virtuoso

«Certamente se si parla di riciclo, in un mondo in cui risorse sono depredate per la produzione di materie prime, ci troviamo d’accordo con il riciclare – dichiara Campione – Il principio è condivisibile, ma nel momento in cui produciamo qualcosa è importante tener conto della extended producer responsability. Se rimetto in circolo un prodotto di bassissima qualità, il suo ciclo sarà comunque molto breve, produrrò roba analoga.»
Il discorso cambia se il prodotto è 100% cotone o 100% lana. «Se utilizzo una fibra vergine virtualmente il riciclo, oltre a diventare di qualità, è possibile all’infinito. – continua Campione – Per esempio, Benetton sta ricominciando a produrre prodotti in lana 100% perché sa che quel maglione lo può riprendere e riutilizzare per produrre dell’altro. Quindi, per riassumere, il riciclo ha senso se non ci sono sostanze pericolose, ma fibre vergini, che durano il triplo del tempo. Inoltre, quando il capo diventerà un rifiuto, ritornerà a essere una risorsa».

 

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